“Come suo padre, Sandro era un grande architetto, ma non si accontentava di progettare e costruire. Sin dall’inizio si è interessato all’aspetto umano della casa e alle persone che la abitano. Sandro Spini è da considerarsi un pioniere nel settore che viene definito etno-architettura. Certo, un gran numero di etnologi hanno studiato le forme dell’habitat e le modalità del costruire nel mondo, ma ben pochi sono quelli che possedevano al contempo conoscenza e padronanza delle tecniche architettoniche. (…) Da un lato troviamo l’interesse per l’intima relazione tra le case e gli uomini che le concepiscono e le vivono, dall’altro una vera arte dell’osservazione e della comprensione delle strutture di questa “architettura senza architetti”, per usare una forma tanto celebre quanto discutibile.
Sempre riguardo all’Africa, è da segnalare l’importante studio realizzato da Sandro e da sua moglie Annalisa sull’habitat dei pescatori Bozo in Mali. La ricerca sul campo, condotta tra il 1977 e il 1982, è stata oggetto, nel 1984, di un saggio di grande interesse, L’architettura del paese dei Bozo, strumenti di produzione, spazi di relazione e materializzazione del mito pubblicato nella rivista internazionale Storia della città. (…) Oltre alla sua passione per l’Africa, Sandro si è interessato anche ad altre culture, e in particolare alla propria, come dimostra il suo contributo a un’opera dedicata a Premana, ricerca su una comunità artigiana. Nel testo di Sandro ritroviamo le stesse caratteristiche di rigore nell’analisi e la stessa puntuale utilizzazione del disegno e della fotografia. Qualità riconosciutegli a livello internazionale; spesso invitato per corsi, seminari e mostre da università estere (Brasile, Argentina, Uruguay, Guatemala, Libano…); responsabile scientifico di programmi di ricerca condotti in Mali tra le popolazioni Minyanka e Dogon; consulente di numerosi Istituti di Cultura… Dal 2003 insegnava all’Università di Venezia una materia di cui era diventato maestro e sulla quale aveva scritto pagine definitive: l’antropologia visiva o, più specificamente, ciò che lui chiamava etno-fotografia.”
(tratta dai testi di Glauco Sanga e Geneviève Calame-Griaule scritti in ricordo di Sandro)
“Se sapessi raccontare una storia con le parole, non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica” (Lewis Hine)
La fotografia può essere letta come saggio d’interpretazione di una realtà. La fotografia non è registrazione e restituzione obiettiva di un dato – ché escludiamo la presunta neutralità di qualsiasi tipo di registrazione – ma ne è la rielaborazione soggettiva, parziale e critica: proprio per questo la sequenza e la correlazione di immagini costituiscono un testo, un linguaggio interpretativo di un determinato evento. Si ribaltano i rapporti tradizionali: l’immagine, nella quale sono fissati i fatti e gli oggetti, diventa il periodo del discorso visivo (la sequenza); la parola (didascalia) diventa un supporto dell’immagine. Inoltre, per la fotografia, come per un libro, i ritmi e i tempi di lettura – che nel film, invece, sono stabiliti dal regista e dall’operatore – vengono determinati dall’utente.
Il documento fotografico non solo diventa testimonianza della cultura materiale e mezzo di registrazione delle tecniche tradizionali, ma pure metodo di lettura di rituali e di simbologie. Infatti, senza voler riproporre la mistica dell’«attimo irripetibile», è evidente, però, che soltanto gli strumenti di documentazione visiva consentono lo studio a posteriori dell’evento registrato. Nelle società africane, in cui ogni manifestazione creativa è espressione diretta di attività rituali o di sussistenza, ogni decorazione, in quanto simbolo, costituisce una chiave di lettura dell’organizzazione comunitaria. Ad esempio, nell’analizzare la documentazione raccolta sui togu na e nel confrontare le fotografie dei togu na e delle decorazioni simboliche scolpite sui pilastri, ci siamo resi conto che esiste un legame tra i diversi togu na di ogni villaggio. Dall’accostamento delle immagini è scaturita l’ipotesi secondo la quale le raffigurazioni di ogni togu na costituirebbero un unico racconto legato ai miti e alle tradizioni Dogon, in particolare al Sigui (il Sigui – Sirio – è uno dei riti più importanti dei Dogon e viene celebrato ogni sessant’anni).
L’uso del medium fotografico nella ricerca sul campo comporta un’implicazione metodologica di fondo comune, del resto, alle tecniche tradizionali di rilevamento: il problema della presenza dell’operatore nella realtà in cui deve lavorare. Per il fotografo, in particolare, il problema del suo inserimento si presenta soprattutto nel corso di feste o di rituali. Mentre l’etnologo, una volta accettato come osservatore del gruppo, può contenere la sua «invadenza», l’etnofotografo, per oggettive necessità tecniche, con i suoi spostamenti e con il filtro ossessivo dell’attrezzatura evidenzia continuamente la propria presenza.
Il rispetto delle norme, sottaciute ma scontate, che regolano il rapporto con l’operatore-estraneo al gruppo, la permanenza nella comunità e, soprattutto, una precisa conoscenza della realtà osservata sono, ovviamente, condizioni necessarie perché l’etnofotografo possa svolgere la sua rilevazione. Pur essendo convinti che il documento fotografico possa rappresentare uno stimolo all’analisi a posteriori, non crediamo però, come qualcuno pretende, che possa costituire addirittura il punto di partenza della ricerca e che sia preferibile, ai fini dell’indagine, che l’etnofotografo non abbia ipotesi di partenza per poter cogliere la realtà senza condizionamenti e concetti precostituiti. Una metodologia di questo genere discende evidentemente dalla persistente convinzione che la fotografia sia il mezzo di registrazione più oggettivo possibile. Mistificante è pure l’atteggiamento – sorto in opposizione ai metodi «colonialisti» dell’etnologia classica – di quanti sostengono che l’intervento etnofotografico possa avvenire solo attraverso la totale integrazione fotografo-fotografato. In realtà l’operatore – comunque si ponga nei confronti del gruppo osservato – è ed è recepito come «altro»: il soggetto tenderà sempre, sapendo di essere fotografato, a dare un’immagine ufficiale di sé; la realtà filtrata dall’obiettivo è diversa da come la vivono le persone che la compongono. È questo un ulteriore motivo che dimostra l’importanza di uno studio a priori delle specificità sociali e culturali della società da analizzare. Ed è proprio nella coscienza di ciò e nella consapevolezza di tali limiti che si può arrivare a verificare teorie e ipotesi di lavoro.
«Anche se all’epoca il termine non era in uso, le immagini che accompagnano l’opera di Ernesto De Martino entrano a pieno titolo nell’etno-fotografia, ciò che l’obiettivo coglie avrebbe potuto limitarne la lettura a una testimonianza del folklore se a guidare l’inquadratura non ci fosse stata la profonda conoscenza della società fotografata e dei fenomeni da questa prodotti. Analogamente, il raffinato bianco/nero di Mario Cresci potrebbe essere percepito anche solo secondo un codice estetico ma la scelta di spazi, oggetti e personaggi deriva da lunghi colloqui con i soggetti fotografati le cui priorità emotive diventano primi piani. Scattare una foto dovrebbe essere l’atto finale di un percorso conoscitivo oppure, per un processo inverso, lo stimolo per iniziare una ricerca.» (Tito Spini, Giovanna Antongini)
Biografia e lavori di Sandro Spini
Argomenti di futura pubblicazione:
Etnofotografia-fotografia-architettura
I Bozo
I Dogon: Togu na
Sud America